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SUPERMONDO,
un modello d'universo immaginario |
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Una precisazione: l’argomento che sarà affrontato
nelle pagine che seguono, non riguarda quel Supermondo,
che è stato prospettato dalla scienza come risultato della
grande unificazione delle quattro forze fondamentali della natura,
che avrebbe condotto all’esistenza di superatomi,
superstelle e supergalassie, contenute in un superspazio
a quarantatre dimensioni, ma si prefigge di dimostrare la presenza
di una realtà che, anche se costruita con l’aiuto della
fantasia, merita l’attribuzione di un nome, e la scelta è
andata su quello di Universo immaginario
o Supermondo, nome questo che, anche se preso in
prestito dalla fisica, serve a giustificare due sue prerogative
di rilievo, avere un’estensione infinita ed essere sede di
provenienza del nostro mondo.
Qualcuno obbietterà: a che serve parlare di un universo immaginario
al quale, per questa sua condizione, vengono a mancare i presupposti
per un’attendibilità scientifica?
Risposta: questo modello di Supermondo, come in
seguito risulterà chiaro, ci aiuta, non soltanto a capire
meglio com'è fatto il nostro universo, ma rimane indispensabile
per individuare quelle che sono state le condizioni iniziali (ritenute
oggi dalla scienza un traguardo irraggiungibile) che hanno condotto
alla sua nascita e formazione. La circostanza poi, che il nostro
universo provenga dal Supermondo, (come sarà ampiamente dimostrato),
esime dal dover formulare prove sulla sua esistenza col notevole
vantaggio che, pur risultando inizialmente “frutto della fantasia”,
finisce per occupare un suo posto nella realtà che ci circonda.
Si comincia con l’affermazione che questo ipotetico universo
non sia stato creato, poiché la sua esistenza va vista essere
l’alternativa unica positiva alla non esistenza, al nulla,
che prevede l’implicita ammissione della presenza di una sola
unica entità. Naturalmente non può che essere infinito
e, si presume, costituito da una sola sostanza: un tutt’uno
infinito, uniforme e immutabile che esclude, pertanto, proprio per
questa sua condizione, la presenza contemporanea di una Potenza
Somma risiedente al suo esterno, (nell’infinito viene
a mancare un “al di fuori”), mentre questa presenza
rimane ammissibile soltanto a condizione che sia finita e che risulti
inserita “ab aeterno” in modo da risultare anch’essa
alternativa positiva al nulla.
In questo universo immaginario, suggerito unicamente da una logica
filosofica, viene a mancare la presenza di corpi, fatti della stessa
sostanza, in grado di condurre vita autonoma, inoltre, rimanendo
esclusa la presenza di spazi vuoti, che finirebbero per identificarsi
con “porzioni di nulla”, nessuna forma di divenire è
resa possibile, sia che questa riguardi il moto dei corpi, sia le
interazioni, regolate, come oggi si ritiene, dalla presenza di un
campo (che risiede in uno spazio vuoto). Per lo stesso motivo va
esclusa la presenza di forze.
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La premessa iniziale che il nostro universo tragga
origine dal Supermondo, comporta che tutto ciò che risulta
essere presente nel nostro mondo debba avere un preciso riscontro
anche nel Supermondo. Una lacuna importantissima da segnalare, a questo
riguardo, va riferita alla mancanza d’energia e di due diversità:
le cariche elettriche.
Queste considerazioni ci portano ad escludere la validità del
modello di Supermondo, fin qui elaborato, perciò, in alternativa,
rimane giustificato il ricorso ad apportare sostanziali modifiche
riguardanti il “continuo uniforme fatto di una sola sostanza”,
e ciò attraverso la formulazione di un nuovo modello di struttura
in grado di eliminarlo, ma a condizione che, al contempo, rimangano
immutate quelle caratteristiche fondamentali che riguardano l’essere
infinito, eterno, incorruttibile e privo di spazi vuoti.
A questa nuova struttura è possibile giungere soltanto attraverso
la frammentazione del tutt’uno in parti piccolissime sferiche
(granuli di massa), condizione questa che, per la
sua realizzazione, richiede, inevitabilmente, la presenza di altra
sostanza con funzione divisoria (sostanza intergranulare).
Questa prima modifica consente l’esistenza di due sostanze che,
se ritenute in possesso di quelle prerogative attribuite alle cariche
elettriche, permettono di colmare quella lacuna, in precedenza denunciata,
riguardante queste presenze ritenute, a ragione, indispensabili per
giustificare le molte forme di divenire.
La densità delle due sostanze dovrebbe essere non già
uguale ma con una prevalenza, in misura modesta, della sostanza divisoria,
pertanto nel supermondo, e nello spazio che compone il nostro universo,
per essere questo una sua porzione, la positività sarebbe prevalente
ma, venendo a mancare le condizioni per l’istaurarsi di un’
interazione, si configura una condizione d’equilibrio elettrico.
Naturalmente questa modifica non è sufficiente poiché
rimane da rintracciare l’assente più importante: l’energia.
L’energia, non possedendo un volume proprio e in conseguenza
del fatto che la sua presenza la ritroviamo permanentemente legata
alla massa, non può “vivere da sola “, circostanza
questa che potrebbe essere riferita soltanto all’energia luminosa,
ma a condizione che fosse dimostrata l’esistenza di uno spazio
sicuramente vuoto. Poiché l’energia luminosa non esiste
permanentemente, sarebbe stata necessaria, al momento della sua nascita,
la presenza preventiva di uno spazio vuoto, pertanto, l’esclusione
dell’esistenza di uno spazio vuoto nel Supermondo,
e, conseguentemente, in quello del nostro mondo, dovrebbe comprendere
anche la presenza dell’energia luminosa, e da qui rimane giustificato
il convincimento che questa forma di energia dovrebbe risultare, come
le altre, contenuta all’interno della massa.
Questa conclusione ci suggerisce che l’energia, vivendo unicamente
all’interno della massa, debba essere presente non soltanto
nel nostro universo ma anche nel Supermondo, fatto com’è
di massa, e, di conseguenza, il divenire, in quanto ritenuto promosso
dall’energia, deve essere presente anche nel Supermondo, ma
soltanto nella forma che non produce diversità, (movimento
di spin), il che consente il mantenimento della condizione d’immutabilità.
A questo punto è possibile giungere ad una definizione dei
concetti di spazio e di tempo che risulti ugualmente valida, sia che
si faccia riferimento al Supermondo, sia al nostro mondo. In entrambi
i casi, infatti, venendo a mancare uno spazio vuoto,
la sostanza risulta spazialmente
estesa e d'estensione infinita mentre, per
la sua indistruttibilità, perenne, pertanto
infinità e perennità, (spazio e tempo), in quanto legati
alla sostanza, vanno ritenuti, come questa, degli assoluti.
Alla luce di questa ipotesi rimane non corretta l’attuale definizione
di spazio, che lo considera essere “il
luogo, necessariamente vuoto, dove i corpi possono andare a risiedere”,
definizione questa che è stata accettata perché si è
dimostrata essere di grande utilità quando si è trattato
di dare una spiegazione ai tanti fenomeni fisici, ritenuti prodotti
da interazioni a distanza tra corpi, attraverso la mediazione di un
campo.
All’ipotesi, in passato formulata, della presenza nello spazio
di una particolare sostanza, chiamata etere, ritenuta indispensabile
per fare da supporto alle onde luminose, si è opposta la teoria
della relatività che ha ritenuto questa presenza incompatibile
con una corretta interpretazione dei fenomeni fisici e col principio
di relatività, e ciò perché uno spazio pieno
d’etere finiva per risultare un sistema di riferimento inerziale
privilegiato rispetto ad altri sistemi.
Questa osservazione, più che legittima, ha finito per consolidare
l’idea precedente dell’esistenza di uno spazio vuoto.
Oggi, attraverso la teoria della relatività, è stato
ammesso che lo spazio vuoto possa, a seconda delle circostanze, allungarsi,
restringersi e perfino curvarsi, senza contare il fenomeno d’espansione
dello spazio dell’universo che lascia prevedere un aumento immenso
del suo volume che rimane incompatibile con la condizione d’infinito.
Tutto questo è stato considerato verità scientifica,
e ciò, senza che si sentisse il bisogno di dovere dare una
spiegazione concreta sulle “modalità” (magari immaginarie),
che condurrebbero a queste trasformazioni, riducendo il tutto al semplice
rapporto di causa ed effetto. |
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Stessa sorte è toccata al tempo e questo
è avvenuto perché si è voluto legarlo non già
alla sostanza, che è un assoluto, ma al suo divenire la cui
durata rimane condizionata dal mantenimento del contenuto d’energia
che lo promuove.
Inoltre il tempo per essere un continuo indivisibile esclude “a
priori” la suddivisione, che oggi si fa, in passato presente
e futuro giacché, per giungere ad una divisione, si renderebbe
necessario il verificarsi di una cessazione momentanea del tempo,
col risultato che, identificandosi il tempo, per definizione, anche
con il “perdurare dell’esistenza della sostanza”,
si finirebbe con l’interrompere, anche se momentaneamente,
l’esistenza stessa della sostanza.
Nella realtà la suddivisione del tempo è una costruzione
del nostro pensiero che si avvale della presenza, nel nostro cervello,
di un centro della memoria in grado di fissare in successione gli
eventi recepiti
Una frammentazione del tempo, legato al divenire, è stata
resa possibile attraverso l’utilizzo dell’orologio,
che consente di frazionare arbitrariamente il tempo suddividendolo
in tanti intervalli (spaziali) che consentirebbero, attraverso
il loro conteggio, di misurare la durata di svolgimento di un certo
divenire. Bisogna ragionevolmente ammettere che l’orologio
non può essere considerato una macchina in grado di misurare
il tempo, ma un divenire campione da utilizzare come unità
di misura attraverso la comparazione con altri divenire.
E’ bene precisare che, facendo questa comparazione, si finisce
per confrontare due divenire diversi, quello ad es. di un corpo
che si muove di moto rettilineo o vario, e quello d’altro
corpo (facente parte dell’orologio), che si muove di moto
oscillatorio, movimento questo considerato valido e preciso per
non essere suscettibile di variazioni per quanto riguardava spazio
e velocità.
Questa comparazione ha avuto le sue inevitabili conseguenze: ci
si è accorti che in certi esperimenti i conti non tornavano,
ma questa difficoltà, avendo trovato superamento nella teoria
della relatività, ha rafforzato l’intendimento di mantenere
valido l’utilizzo dell’orologio come strumento idoneo
a misurare il tempo.
A questo punto vediamo di trovare una spiegazione, senza il ricorso
alla teoria della relatività, all’ormai famoso seguente
esperimento: su una piattaforma circolare ruotante sono posti alcuni
orologi identici, sincronizzati tra loro, e disposti lungo un raggio.
E’ facile rilevare che, in questa circostanza, inspiegabilmente,
gli orologi non segnano tutti la stessa ora.
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La stessa difformità di riscontri si ripete
allorché confrontiamo l’ora tra due orologi identici
e sincronizzati, posti uno in laboratorio e l’altro in un
aereo che viaggia a quote diverse.
Questi due esperimenti, com’è noto, hanno trovato
una spiegazione non già nel fatto che la velocità
degli orologi variasse per una ragione tutta da scoprire, ma che
fosse il tempo a modificarsi con la conseguenza che questo cessava
di essere un assoluto, attributo questo che andava riferito alla
velocità.
Prima di giungere a conclusioni precipitose, che finivano per sacrificare
il concetto di tempo, sarebbe stato più saggio e opportuno
andare alla ricerca di quel denominatore comune che lega i due sopra
citati esperimenti, e scoprire che la velocità degli orologi,
in determinate circostanze, può variare.
Per giungere a questo risultato sarebbe stato sufficiente soffermarsi
su quanto avviene in una piastra ruotante sulla quale è riposto
un orologio. Tutta la massa, che compone l’orologio, partecipa
al moto con la stessa velocità (lineare) del circuito ruotante
in cui risulta riposta e ciò a spese dell’energia cinetica
fornita dal propulsore meccanico situato al centro.
Da questa partecipazione non rimane escluso quel corpo qualunque
esso sia (pendolo o altro congegno ) che, con energia propria, compie
quel movimento oscillatorio che consente di frazionare il tempo
in tanti intervalli quanti sono i periodi di ogni oscillazione.
In conseguenza del movimento rotatorio della piastra, l’orologio
risulta essere sottoposto alla forza centrifuga, i cui effetti saranno
diversi a seconda che ci riferiamo alla cassa o al corpo oscillante,
la prima, infatti, sarà risparmiata perché impedita
da un vincolo (la tenace adesione, per effetto del suo peso, alla
superficie della piastra ruotante), mentre il corpo oscillante,
libero da vincoli, sarà sottoposto ad una spinta diretta
verso l’esterno. La soluzione di questo increscioso inconveniente,
che provoca una turbativa del movimento oscillatorio, rimane quella
di opporsi alla forza centrifuga attraverso il compimento di un
lavoro che consisterebbe nel mantenere immutato il piano d’oscillazione,
lavoro, questo, che richiede un consumo d’energia. Da qui
nasce la necessità che questa energia sia sottratta alla
quantità utilizzata per il compimento di un’oscillazione,
il che comporta, come conseguenza inevitabile, una diminuzione della
velocità e un allungamento del periodo d’oscillazione,
che sono serviti a frazionare il tempo.
Agli orologi che si trovano collocati nei punti più distanti
dal centro di rotazione, toccherà affrontare le conseguenze
di un aumento dell’intensità della forza centrifuga
per cui, parallelamente, dovrà aumentare il lavoro da compiere
e il consumo d’energia, col risultato di un ulteriore allungamento
del periodo di oscillazione, rilevato dal ritardo dell’ora
segnalato dalle lancette.
Le stesse circostanze si ripetono quando l’orologio si trova
riposto in un aereo che viaggi a quote diverse sempre crescenti,
e ciò perché ogni quota va vista come la posizione
occupata dall’aereo in un’enorme piastra ruotante che
occupa il piano di uno dei tanti paralleli terrestri, e che si estende
dal centro fino ai confini dell’atmosfera, composta di molecole
di gas che, sappiamo, partecipano al moto rotatorio terrestre.
All’obiezione che può nascere riguardante la circostanza
che sia l’aereo sia l’orologio, muovendosi entrambi
di moto rettilineo non possano essere sottoposti alla forza centrifuga,
va risposto che non esiste nella nostra terra un moto rettilineo
“assoluto” in quanto contemporaneamente tutti i corpi
partecipano al moto rotatorio terrestre, ed è proprio questo
il moto, che risulta sottoposto alla forza centrifuga, pertanto,
per contrastare l’azione di questa forza, i corpi ricorrono
al compimento di un lavoro che, inevitabilmente, comporta consumo
di energia, in misura maggiore di quella che sarebbe necessaria
per compiere lo stesso moto rettilineo in un ipotetico pianeta non
ruotante.
Va rilevato che questa spiegazione va accettata senza il conforto
della sperimentazione perché rimane d’impossibile realizzazione,
tuttavia ad una conferma, della sua validità, è possibile
giungere apportando una modifica all’esperimento dell’aereo
che vola a quote diverse, modifica che consisterebbe nel sostituire
le varie quote con le diverse distanza dall’equatore, e ciò
può avvenire facendo compiere all’aereo un percorso
lungo un meridiano, nella direzione che lo conduca verso l’equatore,
e adoperandosi che si realizzi col mantenimento costante della quota.
Poiché avvicinandosi all’equatore aumenterà
la velocità della rotazione terrestre e con questa quella
di quel circuito ruotante, fatto di molecole di gas, ne consegue
che, attraverso il conseguente aumento dell’intensità
della forza centrifuga, si ripresenteranno le stesse condizioni
che hanno condotto ad un rallentamento degli intervalli di tempo
attraverso un innalzamento delle quote di volo. In alternativa si
potrebbe fare compiere all’aereo un innalzamento della quota
nello spazio sovrastante uno dei due poli dove rimane quasi assente
la forza centrifuga.
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Senza il ricorso a questo esperimento, una conferma
c’è data dalla constatazione, fatta nella Guyana
francese dall’astronomo Richer nel 1672,
riguardante la circostanza che il suo pendolo compiva un numero
d’oscillazioni in meno (150) rispetto a quelle che compiva
a Parigi, riscontro questo che, attribuito alla forza di gravità,
ha finito per confermare l’ipotesi che la forma della terra
fosse quella di un geoide.
Da tutto questo può essere tratta la seguente conclusione:
Non esiste nel nostro mondo una velocità
“assoluta”e non soltanto con riferimento all’orologio,
ma a qualsiasi altro corpo in movimento, poiché ad ogni variazione
della velocità (accelerazione) corrisponde, sistematicamente,
quella del contenuto energetico del corpo.
Quando un corpo in movimento, ad es. un auto, diminuisce la propria
velocità, in conseguenza dell’attrito, (apparato frenante
o accidentalità del terreno), si è convinti che sia
una “forza” la responsabile e
non già la conseguenza della perdita d’energia cinetica
divenuta energia termica (v. dopo). Nell’esperimento
degli orologi, non essendo riusciti ad individuare la presenza di
una forza responsabile di ridurre la velocità delle lancette,
la scelta di allungare gli intervalli di tempo è apparsa
l’unica soluzione logica, e questo si ripeterà fino
a quando la cultura scientifica resterà ancorata alla formula
F = ma.
Una volta dimostrata “l’assenza” di forze nel
nostro universo, obiettivo principale di questo lavoro, si presenterà
la necessità di riproporre con nuovi criteri non soltanto
la meccanica classica, ma anche la teoria della relatività.
Bisogna doverosamente riconoscere che l’idea di forza, (considerata
un “ente fisico”, venendo a mancare un riscontro diretto),
è stata di grande aiuto nello studio dei fenomeni fisici,
poiché è servita, semplificandoli, a renderli di più
facile comprensione; ed è proprio per questo motivo, che
questo termine è stato usato, e lo sarà ancora, nel
corso di questa trattazione.
Si ritiene che il tempo, legato al divenire, attraverso gli effetti
(diversità) da questo prodotti, consenta una sua
frammentazione in tanti intervalli quanti sono i periodi di vita
di ciascuna diversità. Va obbiettato, a questo proposito,
che non esistono tanti divenire e tanti intervalli di tempo quanti
sono le diversità prodotte, ma un solo divenire continuo
poiché a ciascuna diversità subentra, sostituendola,
altra successiva, di conseguenza anche il tempo, legato al divenire,
va considerato un continuo, e rimane errata la frammentazione che
è stata fatta finora, anche se rimane giustificata da ragioni
pratiche.
In alcuni casi la vita di una diversità
è quasi illimitata, come lo sarebbe quella dei componenti
di un atomo, ma non rimane esclusa del tutto la possibilità
che questa venga interrotta e sostituita da altra diversità
(radio attività, decadimento beta, annichilazione) mentre,
di contro, esiste un divenire eterno che non produce diversità:
si tratta del movimento di spin presente nelle particelle che compongono
i corpi ed anche, è presumibile, in quegli aggregati, formati
da quattro granuli di massa, presenti, sia nel nostro spazio, sia
nel Supermondo.
Alla luce di tutto questo si può concludere che tutti i corpi
possono essere sottoposti a più divenire derivanti dal concorso
contemporaneo di energie diverse, (l’evaporazione dell’acqua
prodotta dall’energia termica, viene accelerata dal movimento
delle molecole dell’aria, mentre lo scorrimento lentissimo
(0,0000001 m/sec.) di un ghiacciaio risulta favorito o impedito
da variazioni della temperatura.
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