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SUPERMONDO,
un modello d'universo immaginario |
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La stessa associazione tra moto ed elevazione termica trova un
preciso riscontro nei fenomeni elettromagnetici (luce) dove, qualora
la temperatura si mantenesse costante, anche costante risulterebbe
il numero delle diversità prodotte (lunghezze d’onda),
mentre, ad ogni innalzamento della temperatura, corrisponderà
un aumento del numero di queste diversità. E’ quanto
risulta dalle osservazioni fatte sul corpo nero che troveranno ampio
spazio quando sarà affrontato l’argomento riguardante
la nascita del fotone.
Quando accendiamo una candela riteniamo che è iniziato un
divenire, e che durerà fino al momento del suo spegnimento,
per cui, dopo avere eseguito delle misurazioni, (e utilizzando la
meccanica statistica, trattandosi di un fenomeno irreversibile e
molto complesso), ci riteniamo idonei a fare delle previsioni di
durata di altro analogo divenire. In questo caso non si è
ritenuto di dovere prendere in considerazione i tanti altri divenire,
tutti ininterrottamente collegati tra loro, che si sono succeduti
in precedenza e che, hanno consentito di giungere a questo ultimo
tipo di divenire, basti pensare, per non andare molto indietro nel
tempo, alla fioritura delle piante che ha consentito alle api di
cibarsi e produrre, dopo un lungo certosino lavoro, quella cera
che, raccolta e plasmata dalla mano dell’uomo, è finita
per diventare una candela, pronta per essere accesa e dare inizio
ad altri divenire e altre diversità che, raggruppate con
altri divenire e altre diversità di provenienza diversa,
daranno origine a nuovi divenire: è quanto accadrà
all’energia luminosa, al calore e ai prodotti della combustione
(gas, ceneri).
Per giungere ad individuare un intervallo
di tempo legato al divenire, siamo ricorsi all’espediente
di isolare un solo divenire, quello ritenuto più importante,
e misurare, attraverso l’ausilio di un orologio, la durata
di svolgimento segnata da un inizio a cui corrisponde l’esistenza
di una diversità, e da una fine a cui corrisponde altra diversità.
Per meglio comprendere questo concetto, prendiamo in esame quanto
avviene in quel divenire che s’identifica col moto dei corpi:
un’auto si sposta dalla posizione A, a quella di Z, naturalmente
passando per B, C, D, ecc., poiché a ciascun punto occupato
dall’auto corrisponde una diversità di posizione,
la “vita” della diversità ha la stessa durata
del brevissimo intervallo di tempo occorso all’auto per “sostare”
in quel punto, pertanto, sommando la durata della vita di tutte
le diversità che si sono succedute, sarebbe possibile, in
teoria, calcolare la durata del divenire, ma questo si scontra con
la matematica che considera infiniti i punti che compongono un percorso,
e, per di più, la durata della vita di ciascuna diversità,
in presenza di velocità elevate, si ridurrebbe a valori infinitesimi.
Per superare questo inconveniente, si è ricorso alla identificazione
di due sole diversità, una prima che coincide con l’inizio
del moto e una seconda con la sua cessazione, in tal modo, il calcolo
non riguarda le diversità prodotte dal divenire, ma la durata
dello stato di moto che è ben altro, in quanto non ci consente
di sapere se ci sono state variazioni della velocità o se
il percorso non abbia subito modifiche da quello presunto.
Naturalmente, cessando d’essere la prima diversità,
quella con cui è iniziato il moto, non sarebbe stato possibile
eseguire delle misurazioni senza l’ausilio di un cronometro,
o altro congegno più sofisticato, che segna un inizio ed
una fine del tempo, che si fa coincidere con l’inizio e la
fine dello stato di moto. Questo procedimento è accettabile
soltanto perché risponde a motivi pratici ma, bisogna riconoscerlo,
finisce per identificare stato di moto e divenire che, per definizione,
è ben altra cosa poiché, in questo termine, rimangono
inclusi tutti quei fenomeni, (ad es. termici), in cui il moto viene
a mancare.
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Un tipo particolare di divenire, legato al moto, e
che non produce diversità, è il movimento di
spin delle particelle. Il movimento dell’elettrone
attorno al nucleo atomico produce diversità di posizione.
Il divenire che interessa il processo evolutivo del nostro universo,
risulta dalla partecipazione di divenire diversi, accomunati dalla
contemporaneità, anche se, in questo caso, il moto riveste
un ruolo preponderante. Questo divenire, nel caso che sia di tipo
reversibile, si protrae per l’eternità attraverso ripetuti
cicli, mentre nel caso d’irreversibilità della diversità
prodotta, il divenire, ovviamente, cessa di essere, ma non il tempo
che passa ad indicare, nella veste di tempo assoluto, la persistenza
dell’esistenza della diversità. Questo tipo di diversità,
ove venga a mancare la conoscenza del divenire che l’ha prodotta,
non può essere riconosciuta come frutto di una trasformazione,
e poiché la sua esistenza si protrae immutata per l’eternità
ci costringe a considerarla, erroneamente, esistente ab aeterno.
Viene da chiedersi: com’è possibile che un solo
divenire sia in grado di produrre due tipi di diversità di
cui una reversibile e altra irreversibile ?
La spiegazione va riferita alla seguente circostanza: la reversibilità
è strettamente legata alla struttura atomica responsabile del
proseguimento del divenire fino ad una fase in cui si raggiungeranno
le condizioni iniziali che consentiranno l’inizio di un nuovo
ciclo; nel caso, invece, che la diversità prodotta dal divenire,
non fosse destinata a far parte della struttura atomica, (in molti
casi in conseguenza della mole), allora il divenire sarà irreversibile.
Va detto, per inciso, che un aggregato di particelle, non sottoposte
a divenire, avrebbe il privilegio dell’incorruttibilità
e, di conseguenza, dell’eternità circostanza questa che
l’accosterebbe al concetto di anima, il che eviterebbe di doverla
considerare una sostanza diversa da quella del nostro corpo. Ma questo
rilievo è, e rimane, soltanto un’ipotesi.
Poiché, secondo la cultura religiosa, l’universo, unitamente
al tempo, sarebbe stato creato allo stato di divenire, la corruttibilità
del nostro corpo (composto di atomi) sarebbe stata prevista e voluta
al momento stesso della creazione con esclusione dell’anima.
Nell’ipotesi di un universo creato nello stato di divenire,
risulterebbe spiegata la presenza sia del tempo sia delle diversità
che, per essere entrambi legati al divenire, risulterebbero compresi
in un unico atto creativo, ma lascerebbero evidenziate altre problematiche,
oltre a quelle legate alla creazione, e tra queste si colloca quella
riguardante il tempo, poiché rimane incomprensibile la creazione
del tempo dal momento che questo, facendo parte di Dio (in quanto
esprime la persistenza eterna della sua esistenza), non può
essere creato.
Alla luce di queste osservazioni rimane ora possibile dare una definizione
del concetto di divenire: Per divenire deve intendersi
la modifica che si realizza per opera dell’energia, in un certo
intervallo di tempo, dello stato in cui si trova un corpo e che conduce
all’esistenza di una “diversità” che può
essere riferita alla posizione, struttura, consistenza, ecc. ma non
alla sostanza. |
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In passato si è ritenuto che esistessero molte
diversità di sostanza, tanto da essere state ritenute sostanze
diverse, il ferro, il carbonio, l’ossigeno ecc. e ciò
fino a quando non si è giunti alla conoscenza della struttura
dell’atomo, che ha portato alla scoperta che in tutti gli atomi
sono presenti, sistematicamente, tre componenti essenziali: protoni,
neutroni ed elettroni, e che la variazione del numero di questi, si
traduceva in una diversità (apparente) di sostanza. In queste
condizioni le diversità di sostanza si riducevano a tre soltanto.
Con la scoperta dei quark si è giunti ad ipotizzare
tre diversità presenti in protoni e neutroni, non riconducibili
a diversità di sostanza.
Va ricordato anche il tentativo, fatto in passato, rivolto ad unificare
le varie forme di divenire attraverso un’ipotesi che le ha considerate
tutte riconducibili al moto dei corpi. Questa ipotesi è stata
poi abbandonata quando si è visto che, in questo modo, rimanevano
esclusi i fenomeni legati alle variazioni della temperatura. Sarà
possibile riconoscere l’esistenza di un solo divenire, che si
esprime attraverso il moto, quando si giungerà, nel corso di
questa trattazione, a giustificare i fenomeni termici attraverso il
trasferimento da un corpo ad un altro di particolari particelle contenenti
energia (termica), che condurrebbe alle numerose diversità
riguardanti lo stato fisico dei corpi (solido, fluido, aeriforme).
Oggi la fisica assegna allo spazio un ruolo secondario rispetto alla
materia, perché rimane destinato ad accogliere passivamente
al suo interno i corpi o il campo, escludendo una qualsiasi sua partecipazione
al moto. Questo è accaduto perché non si è ritenuto
opportuno fare rientrare nella valutazione, il suo volume, straordinariamente
grande, che soverchia a dismisura quello dei corpi, condizione questa
che lo colloca al primo posto nella scala dei valori degli enti fisici.
La presenza nello spazio di particelle riunite a formare una struttura
ben precisa, immutabile, e perfettamente simmetrica, non serve soltanto
a dare un’identità fisica allo spazio, ma anche ad assegnargli
quel ruolo primario che gli compete (partecipazione attiva
al movimento dei corpi).
Il Supermondo, ipotizzato dal mondo scientifico, si presume,
avrebbe dovuto trovarsi alla periferia del nostro universo, pertanto,
in queste condizioni, essendo inaccessibile a qualsiasi ricerca, rimane
corretta la classificazione di oggetto fantascientifico mentre, di
contro, il Supermondo immaginario, godendo del privilegio di essere
infinito, finisce per accogliere dentro di sé tutto quanto
ha un’esistenza, il che offre la possibilità, identificandosi
con lo spazio che ci circonda, di essere studiato e di meritare il
riconoscimento di reale fisico.
Questa condizione, lascia presumere che debba esserci “continuità”
tra il Supermondo e il nostro mondo. Poiché è soltanto
lo spazio che è in grado di consentire questa continuità,
per essere presente non soltanto all’esterno dei corpi macroscopici,
ma anche all’interno di quelli microscopici, tanto da avviluppare
la più piccola particella, rimane ragionevole convenire con
la seguente deduzione: Supermondo e spazio (non vuoto)
si identificano per cui la dimostrazione dell’esistenza di uno
spazio non vuoto finisce per confermare anche l’esistenza del
Supermondo.
Per bene comprendere il divenire che riguarda il moto dei corpi nel
nostro mondo, e in assenza di uno spazio vuoto, bisogna partire da
quella struttura, in precedenza ipotizzata, fatta dalla presenza di
particelle piccolissime alle quali è opportuno imporre un nome:
granuli di massa mentre a quella sostanza, avente funzione divisoria
tra parti, quello di sostanza intergranulare. La sostanza (il quanto
di massa) di cui sono fatti i granuli, s’identifica con un tutto
unico e inscindibile che comprende massa, energia e carica elettrica
negativa, mentre la sostanza intergranulare s’identifica con
la carica elettrica positiva.
La condizione d’inscindibilità sta ad indicare l’esistenza
di due sole diverse sostanze, in possesso di “attributi “
diversi, il che esclude che possa verificarsi, come oggi si ritiene,
una trasformazione della massa in energia (annichilazione) e viceversa
(accelerazione di particelle). Per lo stesso motivo rimane errato
considerare la massa un addensato di energia.
Uno stato d’addensamento, che può essere riferito soltanto
ai granuli di massa, comporta un aumento dei suoi componenti: massa,
carica elettrica negativa ed energia, e, risultando questa ultima
aumentata di potenza, finisce per identificarsi in una forma si energia
di maggior “pregio”, erroneamente ritenuta l’esito
di una trasformazione.
I granuli di massa presenti, sia nel Supermondo,
sia nello spazio che ci circonda, sarebbero in grado di muoversi autonomamente
perché in possesso d’energia, essendo questa permanentemente
legata alla massa. Il moto (rotatorio o di spin) si realizzerebbe
attraverso lo scivolamento dei granuli sulla sostanza divisoria, (come
fanno le ruote di un treno sui binari) attraverso la sostituzione
della posizione, occupata da un granulo, con quella d’altro
granulo che si trova a giusto contatto, di conseguenza, essendo tutti
i granuli identici, rimangono mantenuti, la perfetta simmetria e la
condizione d’immutabilità. Nel Supermondo
la presenza di un divenire, che non produce diversità, e che
si esprime col movimento di spin, lo stesso di quello che ritroviamo
nel nostro universo, ci dà la conferma, sia dell’esistenza
dell’energia, sia della ipotizzata provenienza del nostro universo
dal Supermondo.
Qualora il granulo che compone il Supermondo, fosse costituito da
un solo quanto di massa, verrebbe a mancare la possibilità
che si giunga ad uno stato di addensamento, poiché questo rimane
possibile soltanto attraverso la formazione di spazzi vuoti, il che
rimane incompatibile con la premessa iniziale che esclude l’esistenza
di uno spazio-nulla.
E' presumibile pertanto, che i granuli, presenti nel Supermondo e
nel nostro spazio, siano composti di tre quanti di massa che, per
questa loro condizione, essendo i primi due modicamente addensati,
sarebbero, al contempo, in possesso di un contenuto energetico non
soltanto triplicato ma anche aumentato di potenza, nella misura sufficiente
a consentire il movimento di spin. Va precisato, a questo proposito,
che si rende necessario che lo stato di addensamento dei quanti di
massa, presente nei granuli, rimanga diversificato in modo che i primi
due quanti di massa (che vanno visti disposti come una pila di monete),
risulterebbero più addensati degli altri, e ciò in misura
progressivamente decrescente, il che consentirebbe di risultare separabili
anche se fatti di un’unica sostanza. |
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La circostanza che l’energia risiede permanentemente
all’interno del quanto di massa, ci suggerisce l’idea
che ad ogni aumento del contenuto energetico di un corpo debba necessariamente
corrispondere anche quello del suo contenuto di massa e da qui, ammettendo
che ad ogni aumento della velocità di un corpo, corrisponda
quello dell’energia cinetica, si finisce col produrre, per l’inseparabilità
esistente tra massa ed energia, anche l’accrescimento della
massa del corpo in movimento, confermando, in tal modo, quanto è
stato previsto dalla teoria della relatività e che ha trovato
un preciso riscontro nei seguenti esperimenti:
1° facciamo in modo che un elettrone, dopo avere acquistato una
velocità elevata (entrando in una differenza di potenziale),
cada in un campo magnetico. E’ facile costatare che il raggio
dell’orbita sarà maggiore di quello previsto dalla dinamica
newtoniana.
2° un protone od un elettrone veloce va ad urtare un’analoga
particella in quiete. E’ possibile accertare che, dopo l’urto,
l’angolo tra i vettori velocità è minore di 90°,
il che ci suggerisce che la particella incidente aveva una massa maggiore
di quella urtata.
Va rilevato, a questo punto, che mentre massa e carica elettrica negativa
vanno considerate essere una cosa sola, l’energia va vista contenuta
nella massa ma inseparabile da questa, col risultato, come già
detto, che non può sussistere un aumento dell’energia
che non si accompagni con quello della massa, e ciò in aperto
contrasto con l’attuale convincimento che considera l’energia
essere una realtà a se stante, avente vita autonoma e il compito
di promuovere il divenire dei corpi in occasione di un suo “assorbimento”.
E’ un’errata affermazione quella che ammette l’esistenza
di uno stato di quiete dei corpi, riconducibile alla mancanza di energia
(cinetica), trascurando di prendere in considerazione che gli atomi,
che li compongono, sono animati da un movimento oscillatorio al quale
va aggiunto, il moto circolare dell’elettrone e il movimento
di spin, che interessa tutte le particelle. A questo proposito va
ritenuta una felice intuizione quella espressa dal filosofo greco
Eraclito (V secolo a.C.) col detto: pànta
rèi (tutto scorre).
Da tutto questo è possibile giungere alla seguente conclusione:
tutte le volte che vogliamo promuovere il moto di un corpo dobbiamo
infondere energia cinetica, unitamente alla massa che la contiene,
pertanto quando parliamo di “trasferimento” (che nella
realtà si traduce in altro fenomeno) di energia cinetica da
un corpo all’altro, dobbiamo fare riferimento a particolari
particelle, le particelle cinetiche.
Questa circostanza ci conduce a considerare sterili tutti i tentativi
rivolti a collocare la causa del moto all’esterno dei corpi,
e questo è accaduto perché, da sempre, l’esperienza
ci ha suggerito che per promuovere il moto di un corpo, era indispensabile
la presenza di altro corpo in movimento che trasferisse il proprio
stato di moto. Rimanendo inspiegabile il fenomeno della caduta dei
gravi si è ricorso all’intervento di un Dio responsabile
al quale è stato dato l’attributo di “ Primo Motore
Immoto”, e da qui si è pervenuti alla prova certa della
sua esistenza (Aristotele, S. Tommaso).
Escludendo l’intervento divino, agli scienziati, per giustificare
un’azione a distanza, non è rimasta altra ipotesi logica
possibile che non fosse quella che facesse riferimento ad un fenomeno
attrattivo, e ciò ricalcando quanto ci suggeriva l’esperienza
sugli effetti prodotti da una particolare sostanza conosciuta col
nome di magnetite. Da qui, alla nascita dell’idea di “forza”,
il passo è stato breve, e il consenso è stato unanime
anche se, è giusto riconoscerlo, viene a mancare un riscontro
diretto di questa presenza, particolare questo che ha suggerito ad
alcuni di proporre di cambiare il nome di forza con quello di “causa
responsabile”.
A sostegno andava aggiunta la circostanza che l’energia cinetica,
ritenuta una grandezza scalare, non poteva da sola promuovere il moto,
poiché si rendeva necessaria la contemporanea presenza d’altra
grandezza vettoriale, responsabile di determinare direzione e verso.
La presenza della forza è stata riferita non soltanto ai fenomeni
gravitazionali ma anche a quelli riguardanti le cariche elettriche
mentre nel moto circolare e nel movimento di spin (che può
essere destrorso o sinistrorso ), è giusto riconoscerlo, la
presenza di questo vettore rimane non facilmente identificabile. |
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Lascia molte perplessità il fenomeno del trasferimento
dell’energia da un corpo in movimento ad altro in quiete, se
si presume che l’energia cinetica non possa “conoscere”
i confini entro cui limitare questo trasferimento, e ciò in
considerazione del fatto che, nella quasi totalità dei casi,
i corpi in quiete non sono isolati ma aderenti, attraverso il loro
peso, ad altro corpo che rappresenta lo “spazio” sul quale
si muovono: è il caso di una bilia in movimento che colpisca
altra bilia in quiete o quello di un locomotore che trasferisce l’energia
cinetica alle ruote dei diversi vagoni ma non ai binari.
Questi rilievi meritano di essere presi in seria considerazione e
giustificano qualsiasi tentativo rivolto ad affrontare con altra nuova
interpretazione i fenomeni legati al moto dei corpi. E’ quanto
si cercherà di fare nelle pagine che seguono.
Il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele
(III sec. a.C.) riferendosi alla freccia lanciata dall’arco
(moto violento) individuava due cause: una prima, responsabile di
promuovere il moto, e una seconda, preposta al suo mantenimento, che
andava individuata nella “virtù propria dei corpi”.
La meccanica classica, nel caso della pietra che, lanciata in alto,
ricade al suolo, ricalca questa interpretazione poiché all’azione
della forza di gravità aggiunge quella dell’energia potenziale
che finisce per identificarsi con la “virtù propria dei
corpi”.
A questo punto, se ammettiamo che l’energia cinetica sia “permanentemente”
presente in tutti i corpi, e che rimanga disponibile ad esercitare
il suo ruolo solo che venga attivata da una causa inizialmente esterna
ai corpi, e che possiamo chiamare col nome di forza, l’accostamento
al dettato aristotelico rimane più evidente, e presenta il
vantaggio di non dovere lasciare senza spiegazione la presunta trasformazione
dell’energia potenziale in energia cinetica. Negli altri casi
di moto, il convincimento del trasferimento dell’energia cinetica
da un corpo in movimento ad altro corpo in quiete, fa presupporre
che l’attivazione dell’energia cinetica non si renda necessaria,
ma fa emergere altre problematiche legate, sia alla diffusione dell’energia
in tutte le direzioni, sia al tempo necessario per completare questa
diffusione.
L’energia, formando un tutto unico col quanto di massa, risulterebbe
essere presente oltre che nei granuli dello spazio, anche nella massa
che compone tutte le particelle che, pertanto, risultano dotate di
quelle proprietà cinetiche che ritroviamo nel movimento di
spin.
Partendo da questo assunto e con l’aiuto di un po’ di
fantasia, è possibile ricondurre tutti i casi di moto in uno
schema unico, che prevede poche e semplici regole che vanno ritenute
indubbiamente valide. L’attività motoria andrebbe riferita
alla presenza di particolari piccole particelle, le particelle cinetiche,
moderatamente addensate e pertanto non facilmente individuabili, disposte
attorno al nucleo atomico in modo da formare tanti cerchi concentrici
perennemente ruotanti. |
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Nel fenomeno della caduta dei gravi le
particelle cinetiche che compongono il più esterno di questi
cerchi, verrebbe mobilitato da altra particella, di provenienza esterna,
in veloce movimento (gravitone) che trasferirebbe
il proprio contenuto di massa e di energia libera, aumentata di potenza,
ad una delle particelle cinetiche che compongono questo circuito,
determinandone la sua “estrazione” e provocando, di conseguenza,
la mobilitazione delle altre particelle. La particella “estratta”
(da identificare col nome di gravitone di seconda generazione),
essendo in possesso di energia di potenza superiore, assumerà
lo stesso ruolo di quella che ha promosso la sua estrazione, col risultato
di ripetere lo stesso fenomeno nel circuito ruotante, presente nell’atomo
più prossimo. Si tratta in definitiva di qualcosa di simile
a quanto avviene in quella gara, detta a staffetta, in cui i concorrenti,
distribuiti a gruppi lungo un percorso, partecipano ad una corsa veloce
scambiandosi un bastoncino che prende il nome di testimone.
Da questo procedimento a catena si giunge in un brevissimo intervallo
di tempo alla mobilitazione progressiva e sempre crescente di particelle
cinetiche che, per essere dotate dei vettori velocità e quantità
di moto, sono in grado non soltanto di produrre movimento ma anche
di determinarne direzione e verso. Le particelle cinetiche, riunite
nei circuiti ruotanti, finiscono per identificarsi con quell’energia
che ha ricevuto il nome d’energia potenziale.
Il ripetersi di questo fenomeno, producendo, un aumento progressivo
del numero delle particelle cinetiche mobilitate, si renderebbe responsabile
di determinare continue e ripetute accelerazioni, nella misura prevista
dalle leggi della dinamica, a condizione che si tenga conto della
partecipazione di due grandezze: una prima temporale, la frequenza,
con cui si susseguono i gravitoni che giungono al corpo in caduta,
e una seconda, spaziale, intensità, che sta ad indicare il
numero dei gravitoni presenti in una certa unità di volume
di spazio, numero che risulterà proporzionale alla massa che
li genera e inversamente proporzionale con il quadrato della distanza
dalla sorgente, e ciò perché risulterebbero riuniti
in modo da formare dei fasci che, come quelli luminosi, si espandono
a ventaglio partendo dalla sorgente. |
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Questa ipotesi rimane in pieno accordo con
i riscontri sperimentali che ci dicono che i corpi che cadono sono
diretti verso il centro della Terra (e ciò perché questi
seguirebbero, in senso inverso, lo stesso percorso fatto dai gravitoni)
e che l’accelerazione aumenti in misura inversa del quadrato
della distanza. È facile, a questo punto, ricondurre
alla frequenza dei gravitoni il numero delle particelle cinetiche
che, mobilitate in successione, si renderebbero responsabili dell'
accelerazione, mentre al numero dei gravitoni per unità di
volume (intensità) va riferita la capacità di accelerare
corpi di masse diverse, fino ad un massimo di contenuto di massa,
che varia con il variare dell’intensità.
Questa suddivisione dei ruoli trova un preciso riscontro nell’esperienza,
che ci dice che i corpi che cadono giungono al suolo contemporaneamente
indipendentemente della loro massa, e ciò in considerazione
del fatto che qualora l’intensità può essere ritenuta
sufficiente per promuovere il moto di un corpo di grande massa, lo
sarà anche per quegli altri corpi di massa inferiore, mentre
l’accelerazione, per essere legata alla frequenza, non potrà
che essere uguale per tutti i corpi, il che ci conduce a ritenere
che nel fenomeno della caduta dei gravi sulla Terra, il valore dell’intensità
rimane ininfluente, ma non già quando questi corpi si trovano
a notevole distanza, poiché, in questo caso, “la capacità
attrattiva” risulta notevolmente ridotta, o mancare del tutto,
se in presenza di un corpo di grosse dimensioni. Per questo motivo
due corpi, aventi masse diverse, non possono attrarsi reciprocamente,
e il risultato è quello di assistere al solo spostamento del
corpo di massa minore in direzione di quello di massa maggiore, poiché
quest’ultimo “non può” essere attratto.
Ecco individuata, con una semplice congettura, la “causa responsabile”
di produrre un’accelerazione nei fenomeni gravitazionali, ma
rimangono ancora da precisare le circostanze che porterebbero alla
“nascita” del gravitone (di prima generazione).
Quando è stata formulata l’ipotesi dell’esistenza
della particella gravitone, (e questo è accaduto per giustificare
l’azione a distanza), le è stato attribuito il ruolo
di particella portatrice di forza (attrattiva), e ciò senza
una preventiva valutazione delle incongruenze che ne sarebbero derivate
e, prima fra tutte, quella di attribuire al gravitone il possesso
di due vettori aventi versi opposti: uno proprio (velocità)
che lo conduce al corpo da attrarre, e un secondo, di verso opposto,
da trasferire al corpo.
L’idea iniziale di forza è stata concepita, anche se
in forma astratta, attraverso un criterio di logicità che non
dava adito ad obbiezioni sulla sua validità, sia perché
trovava un preciso riscontro nella sperimentazione, sia per la sua
applicabilità in campo astronomico. Si trattava, in definitiva,
di presumere che esistesse in rutti i corpi una prerogativa, o “attributo”,
che consentisse di potere esercitare un’azione attrattiva, la
cui intensità, si riteneva, aumentasse, in misura proporzionale,
alla massa. Nei casi riguardanti la caduta dei gravi la forza, traendo
origine dal centro della Terra, trovava il suo punto di applicazione
in altro centro, chiamato centro di massa. Venendo a mancare la partecipazione
di particelle, il moto dei corpi in caduta, non poteva che essere
interpretato come conseguenza di un’azione a distanza, esercitata
dalla Terra, la stessa di quella esercitata da un comunissimo magnete. |
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