MUSICA CLASSICA
Il TRIO (pianoforte, violino e violoncello)
La preistoria del trio di pianoforte, violino e violoncello si confonde con quella della sonata per pianoforte e violino o per pianoforte e violoncello nel brodo biologico in cui galleggia quel sonatismo galante per tastiere, con accompagnamento ad libitum di uno o due strumenti accessori, che a partire dal secondo Settecento in poi pervade la produzione cameristica europea pour les amater, attestandosi come best seller nei cataloghi della nuova editoria industriale sorta principalmente a Londra, a Parigi e nei Paesi Bassi. Un genere le cui vicende scorreranno parallele a quelle della cameristica di Haydn, Boccherini, Clementi, Viotti, Mozart, Beethoven e del suo affermarsi europeo: talora contaminandola (è il caso di Clementi, compositore-editore sensibile come un barometro agli stimoli del mercato), per lo più opponendovisi quale alternativa di tipo amatoriale, improntata a una facilità non meno intellettuale che tecnica, pronta ad assumere i toni confidenziali e casalinghi del Biedermeier.
Trattare di questa progenitrice del trio o della sonata per pianoforte c archi così come verranno intesi dal Classicismo viennese sino ai nostri giorni è un po’ come trattare di una specie biologica estinta, i cui resti fossili inzeppano i cataloghi degli editori coevi e i fondi antichi delle nostre biblioteche. Sotto il profilo tipologico, essa consisteva in una sonata per clavicembalo o fortepiano, articolata in tre o due movimenti e dotata di sostanziale autonomia strutturale. L’aggiunta di un violino (o flauto) e un violoncello, indicati in partitura e allegati in parti staccate al fascicolo editoriale, significava che tali strumenti potevano discrezionalmente venire in aiuto alla scarsa capacità di durata del suono tastieristico mediante raddoppi, terze o seste parallele alla linea cantabile, bicordi o note tenute per sostenere le armonie, nonché (per quanto concerne il violoncello) rinforzando le note del basso.
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ATOS TRIO - Thomas Hoppe(pf.), Annette von Hehn (vl.), Stefan Heinemeyer (vc.)
I TRII di L. van Beethoven
L’emancipazione che da tali modelli primitivi porterà Ludwig van Beethoven (1770-1827) alla Sonata a Kreutzer o al Trio dell’Arciduca è pari a quella che dagli ominidi della preistoria porterà all’Homo sapiens, anche se si svolgerà per vie non univoche ma parallele, e in un giro d’anni incredibilmente breve. Nessun dubbio che nelle sonate per pianoforte e violino e nei trii di Mozart, nati negli anni ‘70-’80, e nei trii di Haydn, scritti per lo più negli anni ‘90 (ma ancora significativamente pubblicati come Sonate per fortepiano con accompagnamento di un violino e un violoncello!) il primigenio DNA sussista con evidenza nella parte pianistica che è sempre preponderante anche se non più dotata di autosufficienza, giacché gli strumenti ad arco, ma soprattutto il violino, le si affiancano con funzioni ormai decisamente strutturali, sviluppando quella dialettica dialogante di che consiste il moderno sonatismo cameristico a più strumenti.
Un lungo lavorio preparatorio e selettivo, frutto di una precoce, severa coscienza autocritica, traluce dall’autorevolezza stilistica e dalla mirabile rifinitura formale dei tre Trii che nel 1795, editi da Artaria, aprono il catalogo ufficiale di Beethoven. Non diversamente che per le successive Sonate per pianoforte op. 2, era in gioco la reputazione professionale del venticinquenne compositore-pianista da poco affermatosi nella mondanità musicale di Vienna. In quel suo linguaggio gravitante, per il momento, attorno al pianeta pianoforte, Beethoven dà prova di ben conoscere gli autori che contano, dall’ineludibile Mozart a Clementi, che rappresenta l’avanguardia del caso e del quale egli adotta gli aggiornamenti tecnici e il suono ricco e brillante. Ma i debiti con il presente e il passato prossimo sono assai meno rilevanti delle novità, in queste tre composizioni imponenti e ambiziose che, al pari delle Sonate op. 2, pongono fine allo stato d’inferiorità gerarchica nel quale, in quanto genere specifico, era ancora tenuta la cameristica con pianoforte, parificandola al rango «nobile» del quartetto o quintetto per archi e della sinfonia: dei quali i Trii op. 1 mutuano l’ampiezza e la complessità dei singoli movimenti portati a quattro mediante l’acquisizione di uno Scherzo o Minuetto.
Tre Trii op. 1 per violino, violoncello e pianoforte (1795)
n. 1 in Mib maggiore (Allegro - Adagio cantabile - Scherzo, Allegro assai - Finale, Presto),
n. 2 in Sol maggiore (Adagio - Allegro vivace - Largo con espressione - Scherzo. Allegro - Finale. Presto) e
n. 3 in Do minore (Allegro con brio - Andante cantabile con Variazioni - Minuetto. Quasi allegro - Finale. Prestissimo) [riscritto da Beeethoven come Quintetto per archi in Do minore Op. 104]
Una strategia compositiva comune sembra emergere da talune costanti ravvisabili soprattutto nei primi due lavori, in mi bemolle e in sol maggiore. Lo spiccato bitematismo degli Allegri che, attraverso la fitta polifonia dialogante dei tre strumenti e i frequenti raddoppi incrociati delle linee tematiche, dilata e irrobustisce i tradizionali parametri di suono e di massa ben oltre i limiti raggiunti dai Trii di Mozart.
La fervida cantabilità, oscillante tra il Lied e il neoclassicismo melodrammatico, dei movimenti lenti. L’ambiguità tonale, l’irrequietezza ritmica e l’alacrità agogica dei tempi ternari, da battersi «in uno», degli Scherzi. Il gusto per il gesto sorprendente e capriccioso, ripreso da Haydn ma enfatizzato ai limiti della stravaganza, degli attacchi dei Finali: ecco i tratti più spiccati in tre composizioni destinate a ribadire clamorosamente, nella Vienna di fine secolo, una presenza intrigante già emersa nei rituali della mondanità concertistica.
Da notarsi altresì la strategia seguita da Beethoven nell’avvicendare le tre composizioni: ove alla sfrenata estrosità provocatoria del Trio in sol magggiore, fa seguito la drammaticità del Trio in do minore, primo emozionante manifesto di un pathos anche più intenso e rigoroso di quello che si esprimerà nelle Sonate op. 10 n. 2 (in Fa maggiore) e op. 13 (Patetica). Nel movimento iniziale, che apre la serie degli Allegro con brio beethoveniani, l’inciso di quattro note, mi-re-do-do, che appare dopo le nove misure introduttive, riapparirà una quindicina d’anni dopo per moto contrario nell’Ouverture dell’Egmont e costituisce per il compositore il primo esempio di microcellula tematica destinata a funzioni strutturali fondanti, se non assolute, nell’ambito della forma Sonata. II serrato drammaticismo del primo tempo lascia il posto, nell’Andante cantabile con Variazioni, a una tenera soavità ancora sostanziata di spiriti mozartiani: le variazioni, tra le più ricche e affascinanti di quelle degli anni giovanili, terminano con una stupenda «coda» a sorpresa, mentre, dopo la parentesi di un Minuetto che certo non passerà inosservato da Schubert, si passerà ad un tempestoso Prestissimo dove si configura la dialettica che nell’op. 27 n. 2 (Al chiaro di luna) contrapporrà i due principi oppositori: dirompente attacco tematico a cui segue una struggente risposta cantabile.
Trio in Si bemolle maggiore "Arciduca" op. 97 per violino, violoncello e pianoforte (1811)
(Allegro - Andante - Allegro moderato)
Con il monumentale Trio in si bemolle maggiore, detto «dell’Arciduca» perché dedicato a Rodolfo d’Asburgo, composto entro il 1811, ma pubblicato cinque anni dopo come op. 97, Beethoven intese dire la sua parola più alta in un genere che con i Trii op. 70 (n.1 «Trio degli stettri» e n. 2 in Mib maggiore) sembrava avere attinto vette difficilmente eguagliabili. Occorreva trovare nuovi percorsi compositivi, un deciso mutamento di rotta già ravvisabile nell’ampiezza delle macrostrutture del lavoro, e nei conseguenti mutati rapporti interni di equilibrio e di forza, che valgono a collocare il Trio sulla stessa dirittura di arrivo della Sonata per pianoforte op. 106 in Sib maggiore. Una monumentalità, quindi, cui sottende una vigile cura del particolare e che scaturisce più da una meditata strategia globale intesa a estendere le forme sonatistiche al massimo delle loro capacità strutturali, che dall’assunto di produrre uno spettacolare pezzo da concerto. Non un «Gran Trio» alla Hummel o alla Czerny, ma un Trio grande perché grandi sono l’amato inventivo e la complessità compositiva che lo informano. Pure, nonostante le sue eccelse bellezze, esso non raggiunge il perfetto equilibrio dei Trii op. 70, massime del primo di essi, o dell’op. 106: come era avvenuto per il Concerto n.5 in mi bemolle per pianoforte (anch'esso dedicato all'Arciduca), le sue architetture tradiscono talora lo sforzo costato all’artefice, e la tensione delle lungimiranti sperimentazioni nel campo del timbro cede talora a momenti di stanchezza e a soluzioni risapute.
Il Trio s’apre con un Allegro moderato costruito sopra un tema improntato a nobile cantabilità liederistica e una seconda idea dal carattere gentile ed esitante; a metà sviluppo, un episodio dominato dall’iterazione dei trilli del pianoforte e del pizzicato degli archi introduce quelle stupefacenti intuizioni timbriche che costellano l’universo sonoro dell’ultimo Beethoven. Sempre nella sezione centrale del movimento, il tema principale viene sviluppato attraverso una lievitazione melodica e annonica della quale si ricorderà Schubert nella Sonata per pianoforte D. 960 significativamente nella stessa tonalità (Sib maggiore): un’opera che nelle bellezze come nelle manchevolezze (anche in essa è riscontrabile un finale debole) presenta più di un punto di contatto col Trio beethoveniano. Tanto il primo tempo come il successivo, uno Scherzo molto esteso e articolato, portano come un arco di trionfo alle prodigiose variazioni dell’Andante cantabile, però con moto, cuore pulsante della composizione. Si tratta del primo compiuto esempio di variazione integrale beethoveniana, nella quale il tema, un Lied improntato a una contemplatività solenne e insieme affettuosa, viene sottoposto a radicali metamorfosi implicanti ogni parametro del discorso musicale. Ancora, sono spesso le armonie (come avviene nella quarta variazione) ad assumere funzione «melodica», rievocando l’ombra del motivo di base che riemerge soltanto alla fine nella sua originaria integrità, dando luogo a una coda di meravigliosa bellezza crepuscolare.
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Ritratto di Beethoven (1800 ca.) di C.T. Riedel
MUSICA SACRA E MUSICA PROFANA
Fin dal medioevo la Chiesa dovette affrontare il problema della musica in stretta correlazione con la preghiera collettiva. I teorici del cristianesimo dibatterono accanitamente sull’introduzione della musica nelle funzioni religiose poiché considerata da alcuni “strumento del demonio, fonte di corruzione, dominio del piacere”, da altri invece “potente mezzo di elevazione spirituale e immagine di armonia divina”. Considerato il grande potere di aggregazione che aveva il canto liturgico nelle masse dei fedeli, i dotti della Chiesa operarono una netta distinzione tra musica sacra e musica profana, basandosi sui contenuti dei canti che facevano parte dell’immenso patrimonio delle preghiere cantate dai primi cristiani. Per merito dell’Ordine Benedettino che aveva una lunga tradizione musicale, nacque una scuola per riedificare e canonizzare tutto ciò che era stato tramandato dal Cristianesimo.
La musica sacra ebbe un notevole impulso grazie a Sant’Agostino che scrisse un trattato sulla musica (De Musica), a Guido d’Arezzo inventore delle sette note musicali e a Gregorio Magno creatore del canto cattolico (piú noto come canto gregoriano), un modo nuovo di intonare preghiere e benedizioni, una melodia senza accompagnamento strumentale.
Mentre la musica sacra veniva scritta e diffusa, la musica profana, eseguita prevalentemente da giullari e menestrelli, si tramandava “a orecchio”. Poco o niente si conosce delle composizioni cantate e suonate dal popolo; restano una raccolta di canti goliardici (Carmina burana) e circa 250 chansons dei trovatori francesi (troubadours).
Nel quattrocento la musica sacra arriva al suo massimo splendore con il perfezionamento della polifonia ottenuta con la sovrapposizione di piú voci che cantano melodie diverse. Anche il canto profano abbraccia la polifonia, arricchendosi di nuove forme musicali (ballate e madrigali).
Nel Rinascimento a fianco della produzione sacra, che raggiunge l’apice con Pierluigi da Palestrina, fiorisce la musica strumentale con l’elaborazione di nuove forme compositive (sonate, sinfonie, danze). La musica diviene rappresentazione di due mondi diversi: il mondo dei sentimenti religiosi e quello delle trasfigurazioni liriche (amore, banchetti, danze).
La controriforma apporta notevoli modifiche nel modo di far musica in quanto spesso lo stesso musicista compone cantate e oratori (rappresentazioni sacre) e melodrammi (rappresentazioni profane). Le differenze tra musica sacra e profana dunque si affievoliscono; nelle composizioni sacre, il latino viene sostituito dalla lingua nazionale mentre l’organo non è piú l’unico strumento che si può suonare nelle chiese.
Nel settecento si gettano le basi della grande musica, non piú sacra o profana, ma semplicemente “musica colta”. È l’epoca di musicisti come Johann Sebastian Bach, Antonio Vivaldi, Friedrich Händel, prolifici compositori di cantate, oratori, concerti e musica varia.
La crescita della borghesia e l’incremento della popolazione nelle città avvicinano sempre piú gente alla musica, che non viene eseguita solamente nei salotti della nobiltà, ma nei teatri pubblici. I musicisti cominciano a percorrere il pensiero illuministico e nella seconda metà del secolo il grande genio Wolfgang Amadeus Mozart esplorerà tutti i generi musicali conosciuti ampliando, perfezionando e rinnovando la forma sonata, il concerto, la sinfonia e l’opera lirica. Le composizioni sacre, soprattutto le messe, acquistano sempre di piú un carattere solenne e grandioso raggiungendo la loro massima espressione nell’Ottocento, secolo dominato dalla musica romantica e dai musicisti più famosi della storia della musica.
Il novecento, all’insegna delle nuove tecnologie e dell’invenzione del disco, porta notevoli cambiamenti nel pensiero e nella vita musicale. I compositori sperimentano nuovi modi di fare musica: sorgono le avanguardie, la musica atonale, la dodecafonia.
Oggigiorno con la musica elettronica e la computer music, siamo lontani dall’epoca in cui i dottori della Chiesa dibattevano sul sacro e profano; siamo in una società edonistica e consumistica nella quale la musica colta non coinvolge piú il grande pubblico che preferisce ascoltare la musica leggera certamente meno impegnativa; basti pensare al gran numero di telespettatori che segue la fastosa kermesse del festival di San Remo.
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Codice miniato (XV sec.)
Quinto Festival di San Remo (1955)
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